Elogio alla gentilezza


Quante volte ci capita durante la giornata di ricevere e/o offrire un puro e semplice atto di gentilezza? 

Gratuita, senza aspettarsi nulla in cambio, solo per puro istinto di umanità e altruismo.

Forse quasi mai. Ho provato a chiederlo, oltre che a me stessa, a cinque persone nell’arco di dieci minuti e la risposta è arrivata dopo un lungo momento di riflessione. Un paio di loro lo hanno rintracciato in un ricordo lontano.

Ho appreso che il termine “gentile” deriva dal latino gentilis, cioè “che appartiene alla gens”, intesa come gente, stirpe. Non posso negare che un sorriso sornione mi è apparso in viso, quando mi sono resa conto che la provenienza del termine è proprio quella che pratica meno la gentilezza. 

E’ doveroso specificare che, anche quando un individuo effettua un atto di gentilezza senza aspettarsi alcun tornaconto, in realtà sta comunque soddisfacendo un bisogno, ovvero quello di sentirsi riconosciuto e accolto.

Gli psicologi sociali sottolineano attraverso decine di ricerche come sia importante per ciascun individuo essere socialmente accettato, in quanto da questo riconoscimento deriva il sentimento di inclusione nel gruppo dei pari. Tale bisogno ha radici antiche, quando già i nostri progenitori erectus non potevano sopravvivere ai pericoli delle terre selvagge in cui vivevano se non senza la collaborazione di altri individui e la protezione del gruppo. 

Parafrasando gli evoluzionisti, quindi, sopravvivevano coloro che avevano una maggiore predisposizione alla collettività e alla collaborazione, considerando che ciò che ha permesso all’uomo di prendere posto nel ciclo vitale non è stato certo il suo corpo resistente ma la sua intelligenza. 

Proviamo a pensare ad oggi, però. Nel 2021, in Occidente, in un periodo in cui si corre al “si salvi chi può”. Una società individualista, in cui si celebra il senso di autonomia e indipendenza, quasi a considerare un rammollito chi si ritrova a chiedere aiuto. 

Quanto ci ha allontanato tutto questo dalla gentilezza? Da quel senso innato, umano (ma anche animale) di compassione? Io credo, tanto. Al punto che se qualcuno, senza che gli venga chiesto, ci concede di saltare la fila al supermercato perché abbiamo solo un paio di prodotti in mano o se molto banalmente ci dicono “grazie” o “per favore” con un sorriso, ci sembra quasi di aver vissuto un’esperienza mistica. 

Eppure i benefici della gentilezza sono così tanti e così gratuiti. Senza considerare che un gesto gentile ne tira un altro da parte di chi l’ha ricevuto e magicamente la giornata si fa più leggera e soleggiata. 

Basterebbe una cosa sola: alzare gli occhi da terra e osservare più attentamente chi ci sta accanto. Cosa sta facendo? Perché lo sta facendo? Cosa sta provando? Il resto è automatico, vien da sé. 

Mi viene in mente una frase pronunciata da Pema Lhaki, nel film “Sette anni in Tibet” in cui, sottolineando la differenza tra gli occidentali e gli orientali, osserva: “Allora questa è un’altra grande differenza tra la nostra civiltà e la vostra. Voi ammirate l’uomo che esalta se stesso, che si spinge avanti, verso la cima, in ogni campo della vita, mentre noi ammiriamo l’uomo che abbandona il suo ego”.

E’ stata una di quelle volte in cui ho avvertito fisicamente la verità delle parole. 

Il mio proposito è quello di dare più spazio alla vera essenza dell’umanità. Quella che è scritta nei nostri geni. Quella che elargisce sensibilità, cura per il prossimo, gentilezza. E’ il nostro proposito. E’ il proposito di BORDERMIND.

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Dott.ssa Erika Aucello